La progettazione sociale non è un tema nuovo per le organizzazioni del Terzo Settore; se ne parla da tanti anni ed è senz’altro fra gli strumenti maggiormente utilizzati per reperire risorse economiche per il raggiungimento della propria mission. Dall’altro lato, è ancora lo strumento più utilizzato dai finanziatori pubblici (pubblica amministrazione) e privati (fondazioni, imprese sociali) per erogare risorse economiche per le finalità pubbliche e sociali che intendono perseguire.
In questo breve articolo proverò a condividere alcuni consigli, frutto di esperienze, corsi di formazione, consulenze che Tersa ha realizzato insieme alle organizzazioni del Terzo Settore.
Nella nostra esperienza, maturata grazie al lavoro svolto con enti e organizzazioni in percorsi di empowerment proprio sui temi della progettazione, ci siamo resi conto che la progettazione (intesa nel suo triplice significato di cultura, processo di lavoro e strumento operativo) può rappresentare un potente strumento di crescita e sviluppo organizzativo, ma soltanto ad alcune condizioni; diversamente, rischia di diventare invece un serio problema con possibili ricadute organizzative ed economiche che possono essere anche molto pesanti e negative.
Ecco allora i nostri 5 consigli:
1) La progettazione è importante, ma non è tutto.
Il primo consiglio è quello di dare alla progettazione il giusto peso all’interno dell’assetto organizzativo e del posizionamento strategico di un ETS. La riforma del Terzo Settore ha riconosciuto e codificato, in modo specifico nel Codice (Decreto 117/2017), nuove possibilità di finanziamento per il Terzo Settore, il quale per molti anni ha pensato che l’unico canale possibile fosse rappresentato dal convenzionamento a retta con l’ente pubblico o attraverso i contributi e sovvenzioni erogati da enti finanziatori, pubblici e privati, in seguito all’invio ed approvazione di progetti. È ormai chiaro che un ETS può (e aggiungerei, deve!) dotarsi di un modello economico integrato e diversificato, costituito da una pluralità di canali per finanziare le proprie attività di interesse generale. Insieme ai contributi che possono arrivare dal pubblico o dai fruitori stessi delle attività, ci sono altri due strumenti fondamentali: la raccolta fondi e le attività diverse. Sarebbe interessante ragionare sulle opportunità e possibilità che si aprono in questi due ambiti ma lo faremo eventualmente in un’altra occasione. Per adesso ci basti dire che il finanziamento per contributi e sovvenzioni è solo uno, e forse nemmeno il più importante, strumento a nostra disposizione. Con coraggio e lungimiranza, gli ETS dovrebbero iniziare ad esplorare anche le altre possibilità.
2) La progettazione, ma per andare dove?
L’ente deve avere chiara quali sono la sua strategia di cambiamento, la sua mission e gli obiettivi che intende perseguire nel breve, medio e lungo termine. Diversamente, la progettazione diventa una rincorsa ai finanziamenti fine a sé stessa, che richiede un grande investimento e dispendio di energie e di risorse (di tempo, umane, economiche), rischia di far perdere di vista l’aggancio con la mission dell’ente e in alcuni casi, addirittura, la distorce. Tante volte, negli incontri con le organizzazioni, ci è capitato di ascoltare frasi del tipo: “È bello quello che stiamo facendo…Ma non è quello che avremmo voluto fare!”. “Non riusciamo a capire perché dobbiamo fare questi progetti che non c’entrano nulla con noi”. Domande giuste. Ma come facciamo ad agganciare ed inserire la progettazione all’interno della mappa degli orientamenti che guidano il nostro ente? Il riferimento non può che essere alla Teoria del cambiamento (Theory of Change), un approccio rigoroso e scientifico, che ci permette di esplicitare e condividere l’impatto (il cambiamento di lungo periodo) al quale il nostro ente intende contribuire, ma anche di individuare la catena dei cambiamenti che è la condizione necessaria per determinare quell’impatto generale. Insomma, una sorta di mappa, dinamica e condivisa, dei cambiamenti che rappresentano il senso e l’orizzonte dell’agire dell’ente. Costruire come organizzazione la filiera dei cambiamenti (outcomes) consente di definire una mappa che guiderà il nostro operato. Ci permetterà sia di verificare le nostre precomprensioni, e abbandonarle se verranno confutate, sia di collocare le singole progettualità, anche quelle spot ed occasionali, all’interno di una cornice di senso. Ci è capitato spesso di confrontarci con presidenti o board che incitavano i poveri progettisti di turno a fare progetti su tutto, di continuo, su ogni tema, e abbiamo faticato molto a far capire che questo approccio, se anche nell’immediato sembra funzionare (si recupera qualche risorsa in più) nel medio periodo è perdente perché stanca ed esaurisce (nel vero senso della parola) il personale, disorienta gli stakeholder che non riescono più a cogliere quale sia il posizionamento strategico dell’ente, crea un dispendio di risorse economiche che non vengono finalizzate ai cambiamenti importanti e significativi, ma soltanto alle attività da realizzare. La progettazione deve rappresentare un’integrazione nella strategia dell’organizzazione e non una rincorsa ad opportunità last minute; deve essere coerente con la visione strategica (il modello di cambiamento) dell’ente. Qualcuno potrebbe dire: ma se facciamo meno progetti o ne facciamo pochi dove troviamo le risorse? Suggerisco di tornare al consiglio numero 1.
3) La progettazione e l’impatto organizzativo: una bomba da disinnescare.
Il lavoro per progetti si caratterizza per essere un insieme di attività finalizzate al raggiungimento di uno o più obiettivi, da realizzarsi in una durata di tempo limitata, che impiega in modo molto focalizzato una pluralità di risorse economiche, umane e materiali. Si tratta di un modello per organizzare il lavoro, ma non è il solo o l’unico. Il lavoro per progetti viene di norma utilizzato in 3 situazioni ed è qui che manifesta la sua piena utilità ed efficacia: per avviare una nuova attività/servizio, per potenziare o innovare un’attività/servizio, per terminare o dismettere un‘attività/servizio. Non è adeguato invece per condurre attività e servizi ordinari, standardizzati, funzionali, con ruoli e compiti fortemente inquadrati e stabili; in quel caso è opportuno utilizzare altri modelli organizzativi. Questa distinzione è fondamentale ed è bene tenerla sempre a mente: lavoro per progetti e lavoro per servizi, due modalità distinte e diverse per organizzare i processi lavorativi. Cosa accade invece nel Terzo Settore? Che gli enti utilizzano i progetti per portare avanti anche le attività ordinarie e routinarie, innescando cortocircuiti organizzativi di non poco conto. Bisogna aggiungere che la Pubblica Amministrazione in questo non ci aiuta molto: utilizza lo strumento progetto per affidare agli ETS servizi che in realtà non sono progetti, ma sono appunti servizi e che quindi andrebbero finanziati tramite altre modalità. In questo senso vincere ed implementare un progetto non significa solo ricevere un contributo economico, ma innestare in un’organizzazione fatta di ruoli, funzioni, processi standardizzati (che è bene che lo siano) una dinamica che si muove in modo diverso, andando ad impattare sui compiti, sui ruoli, sui tempi di lavoro delle persone. Si tratta di una dinamica distorsiva della quale tenere conto e che va attentamente valutata e accompagnata. Diversamente si rischia di creare disallineamenti, disfunzioni, confusioni o conflitti che non sono salutari per un’organizzazione.
4) Le dinamiche finanziarie della progettazione: risorsa o danno?
Avviare un progetto significa innescare delle dinamiche finanziarie alle quali prestare molta attenzione e da gestire in modo adeguato. Esse sono diverse, qui ne evidenzio due: 1) la gestione della liquidità di progetto: gli enti finanziatori nella quasi totalità dei casi non erogano TUTTO il contributo deliberato all’avvio delle attività, ma lo erogano per tranche. Ad esempio: il 20% all’inizio, il 40% a metà progetto, il 40% alla conclusione delle attività. Dunque, le tranche successive alla prima saranno a rimborso di spese già effettuate e quindi già sostenute. Questo significa che un ETS, nel gestire un progetto, ad un certo punto sarà obbligato a spendere una percentuale di budget per poter ricevere la prossima tranche: nel nostro esempio il 60%, ossia il 20% dato come anticipo + il 40% come stato avanzamento. Ma questi soldi arriveranno materialmente nelle casse dell’ente dopo un tot di mesi da quando sono stati spesi, e più un progetto è di grandi dimensioni più gli importi da anticipare sono ingenti. E se l’ETS i soldi in cassa da anticipare non li ha, come fa? Ci è capitato di parlare con alcuni ETS che quando si sono resi conto di questa dinamica finanziaria hanno preferito rinunciare a progetti già avviati; 2) il cofinanziamento: tutti i progetti richiedono che una parte percentuale del budget del progetto sia a carico dell’ente proponente. Le percentuali del cofinanziamento variano a seconda degli enti finanziatori, si va dal 5% al 50%. In ogni caso, significa che un’organizzazione deve coprire quell’importo con risorse proprie: di nuovo, e se queste risorse non le ha? Qui il consiglio è di valutare con attenzione, già in fase di analisi del bando, le implicazioni di natura finanziaria e capire da subito se si è in grado e in che modo di farvi fronte.
5) La progettazione e la complessità: scrivere semplicemente di cose complesse.
Ci è capitato di lavorare con alcuni progettisti anche molto capaci che scrivevano progetti con un linguaggio forbito, ricercato, molto tecnico; ma leggendo il progetto alla fine non si capivano gli obiettivi e cosa si intendeva fare. La sensazione è che alcune volte la ricchezza delle parole possa nascondere la confusione delle idee. In questo senso, un consiglio è di utilizzare sempre un linguaggio semplice, preciso, asciutto, frasi brevi con pochi incisi o subordinate. La semplicità del linguaggio aiuta, sia l’organizzazione stessa sia i valutatori, a capire cosa si vuole raggiungere, in che modo, con quali strategie. Ovviamente un linguaggio semplice e lineare non significa la banalizzazione delle complessità alla quale i progetti devono dare risposta e che deve trasparire da una proposta di progetto. Il paradigma della complessità, che è lo stato normale della natura e dei fenomeni tipicamente umani e sociali, rimanda alle dimensioni di non linearità, causalità circolare, costruttivismo. E come diceva Umberto Eco: “Per ogni problema complesso esiste sempre una soluzione semplice, ed è quella sbagliata”.
Forse leggendo queste poche righe qualcuno potrebbe aver pensato: Ma se è così complesso fare progetti meglio non farli! No, i progetti vanno fatti, ma vanno fatti con consapevolezza, essendosi preparati per tempo e in modo adeguato.
Proprio per questo TERSA aiuta gli enti a dotarsi di Sistemi di progettazione e non svolge un’attività di sola scrittura di progetti: non sarebbe corretto nei confronti degli ETS e non li aiuterebbe a crescere. Il nostro approccio prevede l’accompagnamento alla costruzione di una teoria del cambiamento, la definizione degli assetti, dei processi e flussi di comunicazione organizzativa interna, la mappatura delle risorse ed opportunità e la costruzione di progettualità specifiche nella prospettiva dell’empowerment e capacitazione organizzativa; con l’obiettivo di rendere progressivamente competenti e autonome le organizzazioni. Perché solo in questo modo gli enti possono valorizzare al meglio le opportunità che il lavoro per progetti offre e crescere internamente nella capacità di risposta ai bisogni ed esigenze dei territori e sistemi nei quali operano.
コメント