«Per andare dove dobbiamo andare… per dove dobbiamo andare?».
A chi è entrato negli “anta” - da poco o tanto e indifferente - sarà capitato di vedere la famosa scena nella quale Totò e Peppino, arrivati a Milano, provano a chiedere indicazioni ad un vigile urbano (il film è “Totò, Peppino e la Malafemmina”, diretto da Camillo Mastrocinque).
Non avete sbagliato articolo. Sapere dove si vuole andare è una condizione essenziale se si vuole fare strada insieme ed evitare il rischio che ciascuno vada per conto proprio. Vale anche per la collaborazione fra terzo settore e pubblica amministrazione.
Nessuna “co- qualche cosa” è possibile – o, almeno, porta a risultati – se non si arriva a definire una destinazione condivisa. In questo articolo proverò a offrire qualche indicazione sul come fare.
Ancora nelle nebbie?
Negli ultimi sei anni, a partire dall’approvazione del Codice del Terzo Settore, si fa un gran parlare di co-programmazione e co-coprogettazione, strumenti potenti con i quali gli ETS possono esercitare il loro diritto/dovere di partecipare alla costruzione delle politiche pubbliche. Negli ultimi due-tre anni, il PNRR ha di fatto costretto molte pubbliche amministrazioni a pubblicare avvisi rivolti agli enti del terzo settore per la co-progettazione (più di raro per la co-programmazione) di interventi in diversi ambiti.
Si è molto parlato di co-progettazione (più di rado di co-programmazione) in convegni, seminari, corsi di formazione, riunioni di coordinamenti e reti.
Eppure, la sensazione è che ancora molto terzo settore stenti a cogliere la forza innovativa e trasformatrice di questi istituti e lo stesso dicasi per la pubblica amministrazione.
E come se ci sentissimo nelle nebbie, convinti che una nebbia debba pur esserci (restando al film di Totò: «Ma, dico, se i milanesi, a Milano, quando c'è la nebbia, non vedono, come si fa a vedere che c'è la nebbia a Milano?»)
Non intendo qui fornire l’ennesimo manuale operativo, sia perché ce ne sono altri buoni in circolazione, sia perché in questo spazio sarebbe impossibile essere minimamente esaustivi.
Ma per chi si sente nelle nebbie può servire una bussola essenziale: non ci darà la garanzia di arrivare a destinazione, ma almeno non andremo in direzioni errate.
Ecco, dunque, qualche indicazioni di massima per orientarsi.
Né succubi, né antagonisti
L’articolo 55 del Codice del Terzo Settore (ho esaurito qui i riferimenti normativi, il resto lo studierete sui manuali) introduce un concetto straordinario: il terzo settore non è una controparte della pubblica amministrazione, bensì un partner. Se il terzo settore opera per il bene comune, così come la pubblica amministrazione, essi possono e devono collaborare. È un vantaggio per la comunità. Dunque, è sbagliato che le istituzioni partano dal presupposto che gli ETS perseguono interessi privati (come le imprese profit) e li mettano in competizione gli uni contro gli altri con le gare e gli appalti. Ha senso, invece, che li coinvolgano per definire insieme cosa è meglio fare e come, per il bene della comunità.
Ma è sbagliato anche che il terzo settore continui a guardare alla PA con un vecchio approccio. In questa nuova luce, non deve sentirsi né succube, né antagonista. Non è succube, non deve sottostare alla PA, ha la stessa dignità. Ma non è neanche antagonista, per forza e sempre contro. È invece corresponsabile della costruzione del bene comune. La parola chiave è collaborazione. Ma comprendiamoci bene: collaborazione non significa che il terzo settore deve collaborare con la PA; significa piuttosto che PA e terzo settore collaborano fra loro, consapevoli delle differenze, ma con pari responsabilità.
Naturalmente, tutto questo è vero a patto che gli enti del terzo settore siano fedeli alla loro natura, cioè davvero capaci di agire per l’interesse generale.
La legge dice che questa collaborazione è il modo normale di relazionarsi in tutti gli ambiti di attività del terzo settore (dai servizi sociali all’educazione, dai beni confiscati alla cultura, dall’immigrazione all’ambiente, dalla protezione civile alla sanità, ecc.)
Politiche o servizi?
Le forme previste per la collaborazione sono essenzialmente due: co-programmazione e co-progettazione. Si assomigliano, ma non vanno confuse.
Nella co-programmazione l’obiettivo della collaborazione è la definizione dei programmi, cioè delle politiche. È una funzione essenziale, che riguarda la decisione comune sui bisogni della comunità, sulle priorità di intervento, sulle risorse da destinare. In questa attività non ci sono risorse da ottenere o servizi da svolgere, c’è da esercitare la “funzione politica” propria del terzo settore, che conosce da vicino i bisogni delle persone e le risorse della comunità e può aiutare la pubblica amministrazione a compiere le scelte più giuste.
Nella co-progettazione l’obiettivo è realizzare insieme certi specifici interventi o servizi, scegliendo le strategie più efficaci, le modalità di svolgimento, la ripartizione dei compiti. Si supera l’idea che la PA definisce un servizio e poi fa un bando per scegliere chi lo esegue. Con questa modalità tutti gli ETS interessati possono dare una mano e la PA non si limita a scegliere, ma partecipa alla realizzazione. E le risorse non sono solo quelle della PA, ma chiunque partecipa contribuisce per come può, anche coinvolgendo volontari o avviando campagne di fundraising. In questo modo si valorizzano tutte le risorse di un territorio a vantaggio della comunità e dei cittadini più fragili. I servizi diventano migliori e si apprende gli uni dagli altri.
Copiare non vale
Una caratteristica essenziale della co-programmazione e co-progettazione è il legame concreto col territorio. Non ha senso e non funziona prendere una politica o un modello di intervento da un territorio e importarlo nel proprio. Imparare da esperienze positive è sempre utile e può offrire spunti per pensare, ma occorre partire da quello che concretamente c’è, dalle caratteristiche del territorio (geografiche, sociali, culturali…), dalla specificità dei bisogni, dalle risorse umane, organizzative, economiche, etiche concretamente disponibili, dalla conoscenza reciproca fra gli attori locali, dalle precedenti esperienze di collaborazione (quelle positive e quelle critiche), per definire cosa è meglio fare e come farlo.
Investire sulla fiducia
Ma perché un ente di terzo settore dovrebbe investire tempo e risorse in attività di co-programmazione e co-progettazione? Non è meglio partecipare ad una gara e, se si vince, svolgere il servizio con competenza e serietà? Non c’è il rischio di disperdere il know-how che la propria organizzazione ha conquistato negli anni, condividendolo con altri?
Certamente, la collaborazione non è un obbligo, ma una scelta. E, vorrei aggiungere, anche una opportunità.
Se parliamo di co-programmazione, è evidente che sul piano pratico c’è solo da perdere tempo. Nessuno rimborserà il tempo degli operatori o dei responsabili che parteciperanno ai tavoli di confronto. Partecipare, dunque, ha senso solo se si pensa che la mission della propria organizzazione non consista solo nel fare servizi alle migliori condizioni, ma nel contribuire a cambiare in meglio la società. Naturalmente, questo è più facile se l’organizzazione è basata sul volontariato, giacché le persone vi operano consapevoli di non voler essere pagati per ciò che fanno. Ma per un ETS di tipo imprenditoriale – per esempio una cooperativa sociale – la partecipazione è un investimento economico senza ritorno diretto, che può essere motivata da una visione del proprio ruolo come attore sociale corresponsabile. Tuttavia, la partecipazione alle politiche è anche un investimento sulla propria reputazione sociale e questo è un elemento del patrimonio immateriale degli ETS che ha anche ricadute sulle opportunità.
Più semplice potrebbe apparire la partecipazione ad esperienze di co-progettazione, benché anche in questo caso qualche “contro” pratico potrebbe esserci. Se, ad esempio, il proprio ente contribuisce alla progettazione comune condividendo un modello di intervento efficace, altri lo apprenderanno e potrebbero riproporlo in autonomia. La collaborazione presuppone la fiducia nel fatto che tutti (compresa la PA) si comportino in modo collaborativo e non competitivo e questo è un investimento a rischio. D’altra parte, quando più soggetti si mettono insieme per progettare un intervento, i benefici possibili sono tanti: innovazione, sviluppo della corresponsabilità, costruzione di capitale sociale, arricchimento e potenziamento degli interventi, solo per citarne alcuni.
Si tratta, dunque, di decidere se investire sulla fiducia o coltivare il proprio orto.
Coltivare sogni e imparare a farlo insieme
Chi coltiva, in realtà, di solito fa una scommessa: piantare oggi sperando che un domani si possa raccogliere.
Allora, il terzo settore può trovare motivazioni per piantare e coltivare semi di cambiamento, sperando di raccogliere più fiducia, più solidarietà, più giustizia. Farlo non è utopia, è fedeltà alle ragioni che spingono gli enti di terzo settore a costituirsi e ad agire.
Il punto di partenza sta nel riscoprire (o ridefinire) la propria vision, la direzione che orienta il perché dell’azione del proprio ente. Questa motivazione, per le realtà del terzo settore, corrisponde al sogno di società che intendono contribuire a costruire. Parlare di sogni può essere equivoco, può far pensare ad aspirazioni lontane e irrealizzabili, a idee prive di fondamento, campate in aria. In realtà i sogni sono la più potente molla del nostro agire, ciò che può mobilitare energia nascoste. «Io ho un sogno…» di Martin Luther King è stata una delle frasi più efficaci nel far convergere energie di cambiamento nell’America degli anni ’60.
Il di più offerto dagli strumenti della co-programmazione e della co-progettazione è la prospettiva – e la possibilità concreta – di non doversi accontentare dei sogni individuali dei singoli enti, ma di poter costruire sogni condivisi. Un proverbio africano insegna che «Se si sogna da soli, è solo un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia».
Co-programmare e co-progettare, dunque, sono attività per pragmatici capaci di sognare.
Famo a capisse
Una delle condizioni per sognare sogni condivisi e per realizzarli è la capacità di dialogare e capirsi. Si tratta di un’arte difficile, non alimentata dalle pratiche dei mass media, dei social e della politica politicante, dove al dialogo si preferisce il dibattito e più ancora lo scontro.
Costruire insieme politiche e progetti – collaborando fra diversi – richiede, invece, di saper esercitare l’arte della comprensione reciproca, a partire dall’esercizio dell’ascolto attivo e da un atteggiamento di fiducia negli altri e disponibile ad apprendere dagli altri. Sto utilizzando, enfaticamente, l’espressione “arte”. In realtà mi riferisco a quelle che sono competenze, sulle quali è possibile formarsi e che è possibile sviluppare. Allo stesso modo, è possibile – e necessario, se si vuole collaborare efficacemente – sviluppare competenze sui metodi partecipativi, che possono aiutare a confrontarsi efficacemente, anche quando si è in tanti.
Su tutto questo TERSA mette la propria esperienza a disposizione delle pubbliche amministrazioni e degli enti di terzo settore per sostenere l’attivazione e la diffusione di pratiche di co-programmazione e co-progettazione. Lo facciamo innanzitutto attraverso attività di formazione per lo sviluppo di soft skill funzionali alla collaborazione o a percorsi mirati alla comprensione dei principi e dei metodi dell’amministrazione condivisa. Ma proponiamo anche attività di consulenza per la facilitazione dei processi di collaborazione, soprattutto a livello territoriale.
Siamo consapevoli, però, che molte sono le dimensioni della vita degli ETS e delle comunità che possono rendere più o meno efficace una pratica collaborativa. Si pensi, ad esempio, alla possibilità di progettare e realizzare campagne di fundraising a supporto delle co-progettazioni, oppure alla definizione di campagne di comunicazione specifiche, o ancora alla messa a punto di modelli di valutazione dell’impatto sociale delle politiche o degli interventi. Per questo, l’équipe di TERSA assicura uno sguardo integrato sulle attività proposte, avvalendosi dell’apporto di esperti che a trecentosessanta gradi possono accompagnare le comunità locali nei loro cammini di crescita.
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